XIV.

Niccolò Machiavelli

1. La vita

Mentre nell’Orlando Furioso (e nella corrente platonica e idealizzante aperta dal Bembo) si esprimono in varia forma le esigenze di armonia e di bellezza del Rinascimento – anche se nel Furioso l’armonia nasce da un profondo rapporto fra realtà e fantasia –, la spinta piú realistica, il senso piú intenso della realtà effettiva dell’uomo e della sua vita associata e politica trova alta espressione anzitutto nell’opera speculativa e pragmatica del Machiavelli, che, d’altra parte, non manca di rapporti con quegli ideali di esemplarità rilevati nella trattatistica del Bembo o del Castiglione quando si pensi al fondamentale trattato del Machiavelli, Il principe, dominato dalla ricerca di un modello esemplare di principe e di norme e regole fondamentali nella istituzione e reggimento degli stati. Ma, ripeto, ben diversa dalla tendenza idealizzante del Bembo e del Castiglione e dalla loro prevalente valorizzazione degli aspetti estetici della vita e della società è la profonda tendenza del Machiavelli ad un’analisi spregiudicata della realtà umana e terrena e alla individuazione di leggi che regolano l’attività politica, nonché la sua intuizione della crisi storica italiana nel quadro della situazione europea e la sua disperata e sin utopistica volontà di combatterla e superarla.

Sicché la stessa eredità del pensiero umanistico quattrocentesco verrà da lui indirizzata non nella piú letteraria e mondana versione di eleganza e di armonia dei grandi trattatisti platonici, quanto nell’approfondimento speculativo e attivo di alcuni grandi concetti e idee – forze in cui il pensiero rinascimentale trova le sue punte piú alte e decisive per tutta la cultura, la scienza politica, e non solo politica, per la stessa visione antimetafisica della vita a cui si lega lo stesso generale sviluppo della storia moderna, e a cui, piú tardi, porterà nuovo fondamentale contributo la nuova scienza sperimentale di Galileo.

Nato a Firenze il 3 maggio 1469 da Bernardo, di antica famiglia e modestamente agiata, Niccolò Machiavelli passò l’adolescenza e la prima giovinezza fra amori e allegre e spiritose compagnie e studio dei classici, poeti e storici, che lo educò ad un gusto umanistico e classicistico, piú volto però alla sostanza delle cose che alla raffinatezza erudita e puramente letteraria. Ma solo verso i trent’anni egli trovò la via piú congeniale ai suoi interessi predominanti (anche se in posizioni tutto sommato modeste) nell’impiego ottenuto nel 1498 dal governo repubblicano di Firenze (costituitosi dopo la cacciata di Piero de’ Medici) quale segretario della seconda cancelleria che si occupava della guerra e degli affari interni. In tale qualità egli ebbe l’incarico di missioni politico-militari e diplomatiche (anche se come osservatore piú che come vero e proprio ambasciatore) che gli permisero di formarsi una viva, concreta esperienza di uomini, di sistemi politici e militari, di situazioni storiche, nel tormentato panorama della politica italiana ed europea e nella difficilissima condizione del fragile regime repubblicano fiorentino insidiato dai Medici, internamente diviso dalla rivalità di opposte fazioni. Cosí dal punto di vista della sua esperienza militare – cosí importante per la sua critica alle armate mercenarie e per la sua fondamentale idea della necessità di un esercito nazionale – egli poté assistere, nel 1500, nel campo dell’esercito fiorentino contro Pisa, alle manifestazioni di indisciplina e ribellioni delle milizie mercenarie, e prepararsi anche a quel tentativo fallito di organizzare una milizia cittadina (l’«ordinanza») che costituí la sua massima impresa pratica quando fra il 1505 e 1507 fu preposto dal gonfaloniere, Pier Soderini, alla formazione di quell’esercito piú fidato e locale. Cosí, dal punto di vista della sua esperienza politica, egli poté conoscere direttamente alcuni dei protagonisti della politica del tempo e rendersi conto personalmente dei gravi problemi non solo di Firenze, ma di tutta l’Italia divisa fra stati ostili e non consapevoli della loro debolezza e minacciata sempre piú gravemente dalla lotta di egemonia di grandi stati europei nel loro diverso consolidamento statale e nazionale: come poté fare nelle sue missioni esplorative presso Cesare Borgia, il Valentino, presso il papa Giulio II, presso il re di Francia e l’imperatore Massimiliano d’Austria. Ma, mentre egli – come vedremo poi – ricavava già da queste esperienze scritti e opuscoli che, pur nel loro carattere piú occasionale, elaboravano già il primo frutto teorico di quelle sue esperienze, un grave avvenimento (la sconfitta dei francesi, alleati dei fiorentini, a Ravenna nel 1512 e la riconquista di Firenze da parte dei Medici sostenuti dagli spagnoli) veniva a troncare drammaticamente la sua attività politica pratica costringendolo – cacciato dal suo ufficio, poi incarcerato per il sospetto della sua partecipazione ad una congiura antimedicea, infine obbligato a ritirarsi in una sua villa, l’Albergaccio, presso San Casciano – ad una inazione assoluta, tormentosa e mortificante (come egli narra con tanta efficacia nella celebre lettera del 5 dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori), ma insieme compensata, piú che dai modesti piaceri della caccia o del giuoco all’osteria con l’umile gente del paese, dalla lettura notturna degli antichi storici romani e dalla meditazione sulle vicende storico-politiche del passato e del presente, sulle leggi della scienza politica, sulla possibilità di un riscatto dell’Italia dalla disperata situazione in cui era caduta. Meditazioni da cui nacquero fra il 1512 e il 1520 quasi tutte le sue grandi opere: donde in certo modo la provvidenzialità di quell’ozio forzato che obbligava il Machiavelli a tramutare in forza di elaborazione e sistemazione di idee scaturite dall’esperienza l’energia volitiva e la tensione all’azione pratica essenziali alla sua personalità. E tuttavia quel supremo compenso non appagava interamente il Machiavelli, che anelava a ritradurre la sua stessa meditazione in un nuovo operare e perciò – pur non rinnegando mai nell’intimo la sua fedeltà agli ideali repubblicani – aspirava ad essere di nuovo impiegato dai nuovi dominatori, i Medici, anche negli incarichi piú modesti, anche se (come diceva disperatamente nella ricordata lettera al Vettori) «dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso!». I nuovi signori non si fidavano di lui e solo assai piú tardi si risolsero ad affidargli prima un incarico storiografico (quello di scrivere la storia di Firenze), poi, nel ’25, incarichi militari per la difesa della città minacciata dalle nuove guerre per il predominio straniero dell’Italia. Ma intanto i Medici erano ancora una volta cacciati da Firenze e la restaurata repubblica frustrò la speranza del Machiavelli di poter riottenere l’antico ufficio di segretario della seconda Cancelleria: ché il suo riavvicinamento ai Medici lo aveva reso sospetto e cosí la morte – avvenuta il 20 giugno 1527 – lo colse ancor piú tragicamente deluso e abbandonato all’inerzia e allo sconforto.

2. La personalità del Machiavelli e il suo epistolario

Cosí la sua vita si concludeva sotto il segno dell’amarezza e del fallimento personale, mentre egli sempre piú acutamente intuiva la sorte tragica di Firenze e dell’Italia. Eppure, come la sua vita fu percorsa da un’inesausta energia e volontà di azione pratica e di destinazione delle sue stesse opere ad un’azione positiva in favore della sua città e dell’Italia, cosí la sua formidabile opera di teorico e di scrittore storico-politico ebbe una fondamentale importanza nella storia successiva della scienza politica, alimentando di sé – pur se tante volte ferocemente combattuto e incompreso – non solo il pensiero politico e storico italiano, ma quello europeo che sempre meglio verrà poi, in epoca moderna, riconoscendo nel Machiavelli – e pur con indicazioni di contraddittorietà e di unilateralità e di utopia – il fondatore della scienza politica moderna e, attraverso questa, uno dei massimi promotori di una visione della vita che ha rotto audacemente ogni schema di tipo trascendente, ogni piú vero residuo di dogmatismo medievale, ogni limite mistico e astrattamente moralistico alle forze dell’uomo nella sua dolorosa e sofferta costruzione del proprio mondo e della propria costruzione di civiltà. Egli appartiene infatti a quella esigua schiera di pensatori che, con la loro opera, hanno contribuito non solo a meglio conoscere la realtà, intendendone alcune leggi di fondo, ma ad imprimere cosí un nuovo corso alla civiltà umana.

La personalità del Machiavelli è vitalissima e complessa e – se è dominata da una centrale e fondamentale passione e volontà politica teorica e pratica (bisogno e capacità di consapevolezza della realtà «effettuale», e volontà di usarne le leggi potentemente scoperte, per un intervento attivo nella stessa realtà) – non manca di forti elementi di malinconia e viceversa di piacere della vita, di amore per la poesia e per la lingua schietta e vigorosa, di movimenti estrosi e caricaturali che possono esercitarsi persino su aspetti della propria vicenda biografica e che accentuano certo gusto ben fiorentino della beffa e del sarcasmo di questo fiorentinissimo scrittore, saldamente legato alla civiltà e ai caratteri piú vivi e risentiti della sua città.

Caratteri che possono anzitutto documentarsi nel suo originalissimo epistolario, vivacissimo e vario di toni, diversissimo da certi epistolari cinquecenteschi composti già con l’intenzione della pubblicazione e quindi con un chiaro prevalente interesse letterario e retorico. Quello del Machiavelli invece nasce – sulla base di diverse occasioni concrete – da un sincero bisogno espressivo personale, dalle forme di una conversazione con amici continuata con loro in una epistolografia che mantiene la freschezza e l’immediatezza dell’impressione sincera, dell’argomento volta a volta trattato e svariante dalle questioni piú comuni e quotidiane al racconto scherzoso di amori e avventure spregiudicatamente vissute e godute, alla narrazione di beffe ed avvenimenti comici della cronaca spicciola fiorentina in cui si afferma un vigoroso gusto del narrare senza ipocrisie e senza abbellimenti retorici (fino ad episodi grotteschi e chiaramenti osceni, ma riscattati proprio dalla lucidità spietata del narrare e da una specie di risentimento amaro di fronte ad aspetti della realtà piú lercia e pure a suo modo degna, in quanto realtà, di essere considerata ed espressa), fino alla discussione di alte questioni di cultura e soprattutto alla riflessione sugli avvenimenti politici seguiti e interpretati con l’assiduo sforzo di risalire da essi a leggi politiche generali e reali e di alimentare queste con la concreta, minuta esperienza di quelli.

Cosí, attraverso le lettere, meglio si comprende la natura di questo grande scrittore che non fu un puro e freddo teorico, tutto chiuso nel cerchio di una meditazione astratta o solo legata a esperienze di letture (che pure furono larghe e profonde e si estesero da quelle fondamentali dei classici e degli storici antichi a una vasta esperienza di trattati politici medievali e umanistici), ma un formidabile scopritore di verità e di leggi amare e inquietanti sostenuto da una esperienza concreta della vita politica e in genere di tutta la vita umana, ricco di intelligenza geniale, ma anche di passione, di immaginazione, di volontà pratica, a volte persino disperata, sia nel suo bisogno di partecipazione personale alla vita politica, sia nella sua forza di opposizione alle condizioni attuali della situazione politica fiorentina e italiana per tentare – anche se con elementi di consapevolezza della difficoltà della sua lotta – di incidere su di esse e di aprire una via diversa da quella della decadenza e della crisi, lucidamente diagnosticate e percepite sino al sentimento doloroso della loro fatalità.

Basti ancora pensare alla grande lettera del 10 dicembre 1513 da San Casciano al Vettori, alla cui lettura si rimanda nell’antologia, per ribadire la base di concreta e umanissima forza ed esperienza complessa di cui, già nelle lettere, si può meglio riconoscere la necessità in rapporto all’attività del pensatore politico e all’origine non astratta dei suoi capolavori come il Principe o i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. In quella lettera infatti si distinguono bene i due piani della realtà quotidiana e volgare in cui il Machiavelli è costretto a «ingaglioffarsi» nel paesetto dove è confinato, e della nobile e superiore dimensione della meditazione teorica quando lo scrittore si rappresenta idealmente rivestito di «panni curiali», intesse il suo alto colloquio con gli antichi e vive una specie di gioia serena. Ma fra i due piani non vi è solo distinzione e opposizione, ché poi l’alto slancio speculativo trae forza di attrito da quella esperienza concreta – volgare, ma intensamente umana e reale – e, mentre questa sollecita lo sdegno del Machiavelli per la sua forzata lontananza dall’attività politica pratica e il desiderio rovente di essere riammesso ad essa dai nuovi padroni di Firenze, quella stessa esperienza meschina fa pur parte di quella piú generale esperienza della realtà, senza di cui lo scrittore non avrebbe concepito i suoi capolavori nati dall’esperienza e destinati ad agire sulla realtà e non a collocarsi in un cielo platonico di astratte e inapplicabili teorie.

Ed ancora da quella grande lettera – essa stessa documento di un grande scrittore capace di passare agevolmente da toni realistici e amaro-scherzosi a toni alti, solenni, severi, ma non retoricamente paludati e compiaciuti – risulta come la forza speculativa del Principe si intrecci all’incessante bisogno di azione sia perché da quel libro il Machiavelli si ripromette di meritare l’attenzione dei Medici e il ritorno alla vita politica, sia perché con quel libro egli intende intervenire nella situazione politica fiorentina e italiana non tanto «formando» (secondo la parola del Castiglione nel suo Cortegiano) un principe perfetto e valido per ogni tempo e condizione, quanto traendo dalla sua viva esperienza del passato e del presente (per lui inseparabili nella viva continuità della realtà e della storia) e dalla considerazione esatta delle forze e delle situazioni del proprio tempo una complessa prefigurazione di un principe «italiano», capace di attuare, con la sua «estraordinaria» virtú e la comprensione della realtà effettuale, l’immane e quasi assurdo – e pur necessario – sforzo di costruire uno stato non ideale, ma storicamente corrispondente alle necessità presenti e cosí di vincere l’inerzia e la debolezza dei piccoli stati italiani del tempo e contrastare la forza delle nuove nazioni-stato già formate e attive sulle scena europea.

3. Dalle opere politiche minori al «Principe»

Di queste nuove formazioni statali e dei loro principi, nonché delle condizioni precise della tormentata politica fiorentina e italiana, il Machiavelli aveva – prima di scrivere i suoi due capolavori politici – fatto notevole e diretta esperienza (anche se in una funzione piú di osservatore che di attore e dunque in una maniera assai diversa da quella che darà maggior materia di riflessione storica italiana ed europea al Guicciardini) negli anni piú giovanili e nelle varie missioni connesse con la sua carica di segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina. Sicché gli scritti minori che egli ricavò da quelle missioni ed esperienze costituiscono il presupposto indispensabile dei suoi capolavori, di cui ancora una volta cosí si sottolinea la genesi complessa, non puramente teorica e tecnica, frutto di una esperienza e di una riflessione lentamente maturata e genialmente, ma non miracolisticamente, portata al piú alto livello di concezioni, di prospettive, di stile, nelle grandi opere nate quando l’interruzione forzata dell’attività pratica esaltò e concentrò la tensione speculativa e la forza e volontà di intervento nella situazione attuale accumulatesi lentamente in quella prima fase di esperienze concrete e di scritti minori.

Fra questi particolarmente importanti, appunto come particolari prove dell’acume e della passione politica del Machiavelli, della sua crescente presa di coscienza della situazione contemporanea e delle leggi della politica, e come materiale di osservazioni, riflessioni, proposte ricavate dall’immediata esperienza, sono il saggio Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1502), la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo ecc. (1503), gli scritti per l’istituzione dell’«ordinanza», cioè di un esercito cittadino e non mercenario (1505-1507), i due Decennali (1504-1509) che narrano in terzine dantesche gli avvenimenti storici italiani dopo il 1494 e i rapporti sulla situazione di alcune grandi potenze europee (il Rapporto delle cose della Magna del 1508, i Ritratti delle cose di Francia del 1510, e i Ritratti delle cose dell’Allemagna del 1512) che prepararono l’importante possibilità di un confronto fra la condizione italiana e quella dei nuovi stati europei.

In tutti questi scritti piú occasionali vivono già alcuni dei grandi problemi che assillarono il pensiero maturo del Machiavelli: il problema degli eserciti nazionali e della loro superiorità rispetto alle milizie mercenarie cui gli stati italiani affidavano tanto pericolosamente la propria difesa, il problema della inferiorità degli stati italiani rispetto alle nuove grandi organizzazioni statali europee, il problema piú generale delle leggi specifiche della politica su cui egli veniva meditando nell’esame e nella valutazione spregiudicatamente realistica dell’azione dei principi italiani e stranieri, indagata anche nella considerazione acutissima della psicologia di quelli.

Cosí la maggiore energia sistematica e scientifica, lo sguardo piú ampio sulla realtà politica che distaccano le opere maggiori da questi scritti minori e preparatorii, si affermano però sull’attrito piú particolare con le esperienze concrete tradotte in quegli scritti minori già con uno stile e un linguaggio inconfondibili per forza realistica e rifiuto di ogni esteriore abbellimento retorico.

L’espressione piú suggestiva e concentrata del maturo pensiero del Machiavelli è certo da identificare nel breve libro Il principe, anche se, come poi meglio dirò, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio – nella loro diversa impostazione e nella loro piú vasta articolazione, ma nella comune atmosfera di consapevolezza critica del fondamentale dramma politico – non sono certo inferiori per valore e importanza nella generale prospettiva machiavelliana e nella grandezza dello scrittore.

Nel Principe energicamente si impostano i grandi temi del Machiavelli con la loro formidabile originalità e con le stesse contraddizioni feconde e gli stessi limiti storico-personali che pur si debbono indicare per una precisa identificazione della posizione machiavelliana.

Il Machiavelli muoveva – sulla base della sua esperienza culturale personale e con la forza della sua intelligenza critica e della sua volontà di verità e di coraggio virilmente pessimistico, ma tutt’altro che rinunciatario ed evasivo – dalla costatazione della decadenza italiana e del suo rapporto con la diversa situazione delle grandi organizzazioni statali europee (Francia, Spagna, Impero) e insieme dalla considerazione delle cause di tale decadenza e inferiorità entro le generali leggi della politica e della realtà naturale e umana.

Rotta – sul filo di una corrente di pensiero maturatasi fino dalla crisi del Medioevo e fra Umanesimo e Rinascimento – ogni concezione trascendente e provvidenziale della vita e della storia, rifiutata ogni astratta giustificazione religiosa e moralistica dell’agire privato e pubblico, il Machiavelli individua, con spietata chiarezza, la fondamentale legge dell’utile che gli uomini e specie i politici necessariamente seguono anche quando non lo dicono e addirittura lo negano giustificando la loro azione utilitaristica sotto le belle parole di ragioni superiori, di moralità e di religione.

La vera «virtú» necessaria alla vita organizzata degli uomini è per Machiavelli non la virtú cristiana (che egli vede come disposizione all’inerzia e all’accettazione della prepotenza altrui), ma una capacità, fatta di intelligenza e di forza consapevole e volta a conseguire risultati pratici e sicuri, a fondare e organizzare la vita statale, a restaurare nel mondo presente decaduto e corrotto l’eroica e virile «virtus» degli antichi esemplari fondatori e reggitori di stati.

Tale forma di «virtú» propria di individualità energiche e superiori corrisponde alle dure leggi della realtà «effettuale» (non immaginaria e vagheggiata sterilmente come «dovrebbe» essere) e della politica, di cui il Machiavelli difende strenuamente l’«autonomia» o meglio l’«unicità» rispetto alla morale e alla religione, ricercandone le particolari tecniche e i particolari mezzi necessari al conseguimento del fine propostosi. Non che – come volgarmente si dice – il Machiavelli sia chiuso ad ogni ragione e attrazione morale, e quindi un cinico e un malvagio (ché anzi egli avverte dolorosamente i limiti stessi dell’agire politico e aspira profondamente ad un mondo giusto e buono), ma egli sa che la realtà è quello che è e che inutile e stolto è nasconderla e travestirla. Egli sa che l’azione politica segue leggi ferree e inevitabili e che il coraggio della verità consiste nell’individuarle e seguirle sino in fondo. E ciò tanto piú – non si dimentichi – in un tempo di decadenza e corruzione, al cui riscatto non bastano le buone intenzioni dei profeti «disarmati» (come era per lui il Savonarola), né i mediocri compromessi fra politica e morale, in un tempo in cui egli disperatamente e lucidamente vede le condizioni della sua città e dell’Italia e perciò, con estrema forza di consapevolezza e di volitività eroica, non trova altro scampo che nell’intervento di un principe dotato di «estraordinaria» virtú, implacabilmente disposto ad usare le arti della politica – astuzia e violenza, qualità di «volpe» e «leone» – per fondare uno stato saldo e compatto capace di guidare egemonicamente un’organizzazione degli altri stati italiani, capace di difendere contro l’invasione straniera la divisa e debole nazione italiana.

Tutto ciò non sarebbe necessario se gli uomini e i tempi fossero diversi, se gli uomini fossero buoni e puri. Ma il «se» appartiene ad un regno puramente ideale e Machiavelli si batte, pensa e agisce nel mondo della realtà «effettuale» in cui gli uomini sono malvagi, egoisti, o stupidi e deboli.

E se il suo ideale è sostanzialmente repubblicano e popolare, la sua acuta diagnosi della realtà e del tempo (e la stessa consapevolezza della superiorità delle grandi potenze europee perché organizzate in maniera assolutistica) lo induce a scegliere nel Principe (il libro piú accesamente proteso, pur nella sua ricchezza di speculazione teorica e scientifica, ad un intento pratico: la salvezza della decaduta nazione italiana) la via del regime assoluto e monarchico tanto piú necessario quando – come nel caso presente – si tratta di fondare quasi dal nulla uno stato.

Occorre dunque educare, con l’esempio della storia antica e moderna (Ciro, Mosè, Teseo, ma anche Cesare Borgia, Ferdinando di Spagna), e con l’implacabile dimostrazione delle leggi della politica, un principe eccezionalmente vigoroso ed eroicamente spregiudicato, disposto – diremmo – a perder l’anima pur di fondare e salvare lo stato, capace di lottare con la sua «estraordinaria virtú» contro le avverse condizioni e contro quella cieca «fortuna» che il Machiavelli vede come l’elemento non provvidenziale ma inevitabile della storia.

«Virtú» e «fortuna» divengono cosí gli elementi essenziali del dramma politico e storico su cui Machiavelli indaga e si arrovella in una visione complessa e, se si vuole, contraddittoria della vita, dato che nessuna virtú può prescindere dalle occasioni della fortuna invincibile e che tuttavia l’uomo «virtuoso» è tenuto ad affrontare la fortuna cercando disperatamente o di cogliere, con la sua intelligenza, i momenti propizi, o addirittura e quasi assurdamente, di forzarla e violentarla nella sua avversità.

Proprio da tale esasperato contrasto tra virtú e fortuna e da tale disperata contraddizione fra la consapevolezza acutissima della condizione italiana, della mediocrità e malvagità degli uomini e la eroica volontà di forzare le cose mediante l’educazione e l’azione di un principe di «estraordinaria virtú», il libro del Principe trae uno degli elementi della sua grandezza e del suo fascino.

Da una parte la sua grandezza consiste nella fondazione della scienza o arte politica e nella rivelazione spietata delle sue leggi specifiche, dall’altra – ma con un nesso mai dimenticabile – essa consiste nel fatto che tale scienza e tali leggi non sono solamente esposte in una pura disposizione descrittiva e spassionata ma vengono pensate ed esposte alla luce di una consapevolezza della situazione attuale e alla luce di una volontà di capovolgimento di questa che circolando al fondo di tutto il libro si esalta, con accesi toni profetici e poetici, nel suo finale, quando direttamente il Machiavelli proprio dalla costatazione della condizione disperata dell’Italia trae la volitiva speranza nell’avvento di un principe che sappia trasformare il vulgo in popolo, utilizzarlo in un esercito nazionale (tanto diversamente coraggioso e deciso delle armate mercenarie che non hanno alcun interesse a combattere per cause non proprie), ridestarne l’antica virtú e liberare l’Italia dagli stranieri. Si può capire cosí come, mentre l’amara lezione del teorico della politica pura costituiva, pur con tutta la sua feroce unilateralità, un avvio essenziale alle discussioni politiche dei secoli successivi, l’appassionata perorazione finale del Principe potesse divenire uno dei fondamentali punti di appoggio per tanti uomini italiani di cultura e di azione specie dall’Alfieri in poi, per tutta la coscienza italiana risorgimentale.

Certo la soluzione machiavelliana della politica pura rischiava di rompere i nessi piú profondi fra azione politica e coscienza morale e il problema di un rinnovato rapporto etico-politico sarà fondamentale nella speculazione politica e filosofica dell’epoca moderna. Ma mentre occorrerà lealmente riconoscere l’intrinseca difficoltà della sua soluzione, dovrà soprattutto ben capirsi come nel suo estremismo la soluzione machiavelliana aveva un carattere profondamente rivoluzionario che poneva lo stesso problema di una diversa conciliazione fra politica e morale su basi ben diverse da quelle in cui quel problema era stato risolto nella trattatistica precedente al Machiavelli. Machiavelli è uno di quei pochi uomini che nella storia umana hanno impostato temi e problemi essenziali, hanno immesso nella coscienza umana drammatici e inquietanti dilemmi e interrogativi supremi.

D’altra parte, a comprendere tutto il vasto arco della problematica machiavelliana, occorre considerare, oltre al Principe, l’altro suo capolavoro: i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.

4. I «Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio»

Nei Discorsi infatti – che in tre libri svolgono considerazioni e meditazioni tutt’altro che sporadiche e slegate fra loro, anche se appoggiate al testo preso a base dell’opera: la prima Deca, cioè i primi dieci libri, della Storia romana di Tito Livio – il Machiavelli allarga la sua visione della vita statale e politica alle varie forme di governo (non solo i «principati» come avviene nel Principe) e, piú che alla fondazione dello stato, alla sua continuità e stabilità cosí come alla sua possibile decadenza e corruttela, legate a un vitale e fecondo rapporto tra le varie classi, all’attaccamento dei cittadini alla loro patria, e insieme ad una specie di storico ed eterno cerchio: entro il quale si passa dalla primitiva barbarie alla monarchia, da questa alla tirannide, e da questa, che stimola la rivolta delle classi piú alte, all’oligarchia, che provoca a sua volta la reazione popolare e la formazione di un governo democratico, insidiato poi dalla licenza popolare, propizia al nuovo risorgere delle forme monarchiche.

In questa piú larga visione – appoggiata all’esemplare percorso della storia romana narrata da Livio, ma sorretta dalla lettura di tante altre opere storiche antiche e moderne – il Machiavelli ha modo di esprimere la sua profonda e personale preferenza per la repubblica in una forma di governo misto e contemperante in sé gli elementi migliori dell’autorità e della libertà, insiti nelle particolari forme monarchiche, aristocratiche e democratiche. E cosí può esporre in forma piú pacata e complessa le ragioni della politica, le ragioni che permisero ai romani e alla loro «virtú» la costituzione di un saldo stato repubblicano, meglio misurando in contrasto la debolezza degli stati italiani presenti, la corruzione e decadenza attuale, in cui la «virtú» degli uomini, l’attaccamento e la fedeltà di tutti alla patria e allo stato sono venuti sempre piú mancando insieme al valore militare e alla partecipazione di tutti i cittadini alla difesa militare del proprio stato.

Ma tale piú larga prospettiva, che fa dei Discorsi l’esempio piú complesso e articolato del pensiero politico-storico del Machiavelli, non è affatto in assoluto contrasto con il fondo di pensiero che alimenta il Principe (il bene supremo dello stato al di sopra di tutto, la «virtú» politica distinta da ogni generica virtú moralistica e religiosa, le leggi fondamentali dell’«utile» proprio dell’azione politica, la contrapposizione e la considerazione degli elementi fondamentali della storia: virtú e fortuna), né si può dire che i Discorsi nascano da una considerazione astratta e puramente teorica, in contrasto con l’appassionata e lucida coscienza machiavelliana della situazione presente cosí energicamente espressa nel Principe. In realtà la diversa impostazione delle due grandi opere (una, i Discorsi, piú comprensiva e generale, l’altra, il Principe, piú parziale e piú direttamente rivolta ad un intervento immediato e quasi disperato teso a forzare la situazione presente mediante l’educazione di un principe di «estraordinaria virtú» e a proporre il principato assoluto come unico rimedio possibile alla decadenza italiana attuale) non toglie che tra le due opere vi siano nessi profondi e che vi si respiri la stessa atmosfera di pensiero, vi si percepisca la stessa consapevolezza del dramma storico contemporaneo: consapevolezza che è alla base di tutta la generale prospettiva speculativa-programmatica del Machiavelli e che sostiene – pur con le sue evoluzioni interne – tutta la costruzione dei Discorsi.

Donde nasce l’ideale contemporaneità delle due grandi opere, il loro stretto rapporto di fondo, la loro reciproca collaborazione.

Infatti – accettando la tesi piú comune, secondo cui il primo libro dei Discorsi precederebbe cronologicamente la composizione del Principe entro i limiti dello stesso anno 1513, mentre gli altri due libri sarebbero stati composti, dopo la stesura del Principe, fra il ’15 e il ’19 circa – la molla fondamentale dello stesso primo libro (quello che tratta dell’organizzazione e della costituzione della repubblica) è proprio di nuovo la fondamentale consapevolezza machiavelliana della crisi politica e sociale degli stati italiani moderni e la volontà dello scrittore di comprenderne le ragioni alla luce della esemplare storia della repubblica romana, che lucidamente il Machiavelli descrive – capacità di esprimere e armonizzare costituzionalmente la ricca e tumultuosa materia degli interessi dei plebei e dei patrizi, di trarre dalle inevitabili e feconde lotte interne i sapienti ordinamenti politici, causa prima della grandezza e potenza romana – contrapponendole alla debolezza e incapacità degli stati italiani attuali.

D’altra parte in quel primo libro il Machiavelli altrettanto lucidamente vedeva come la stessa saggia costituzione non basti, se il legislatore con la sua «virtú» non sa adeguare le leggi alle mobili condizioni dell’evoluzione storica e sociale e come, se ciò non avviene, si apra la via alla decadenza e alla dissoluzione dello stato. Come appunto era avvenuto negli stati italiani moderni.

Sicché l’interruzione dei Discorsi e la composizione del Principe si giustificano non per una assurda conversione profonda e totale del Machiavelli dall’ideale repubblicano a quello monarchico-assolutistico, ma come necessaria e piú immediata risposta a quella corruzione dello stato che egli aveva già teorizzato nel primo libro dei Discorsi e che ora cercava di combattere energicamente nella concreta e assillante situazione contemporanea. E cosí nella ripresa dei Discorsi con i loro due nuovi libri (il secondo che tratta della politica estera, dell’organizzazione militare, dell’espansione dello stato, il terzo che illustra, fra le altre ragioni determinanti, il peso che nella stabilità, nel progresso e nella decadenza dello stato hanno i singoli e le varie condizioni) tanto piú – dopo l’esperienza amara della crescente rovina dell’Italia a causa della piú forte presenza straniera nella penisola e della mancata risposta all’appello del Principe da parte di un principe di «estraordinaria virtú» – la proseguita diagnosi della esemplare repubblica romana e della fenomenologia delle costituzioni e della vita degli stati precisava ancor piú il divario tra lo stato romano e gli stati italiani presenti, tanto piú il Machiavelli approfondiva la sua acutissima e sofferta consapevolezza della crisi italiana nel contesto della situazione europea.

Cosí i Discorsi, mentre ampliano e rafforzano la complessa meditazione del Machiavelli sul problema della politica e dello stato, delle ragioni della grandezza e decadenza delle organizzazioni statali, rivelano la grandezza di un’opera sollecitata sempre dalla concreta realtà politica e storica e perciò mai priva di un fondo di sofferenza democratica, di un pessimismo realistico, che anche artisticamente alimentano lo stile dei Discorsi di una lucidità concreta e di un’energia di passione teorico-pratica, configurandole in forme meno serrate e concise di quelle del Principe, ma pure assai lontane da quelle di una astratta e letteraria scrittura di imitazione classicistica. Il grande – inquieto e inquietante – pensatore è anche qui grande scrittore originalissimo e male inquadrabile nelle linee della letteratura rinascimentale piú edonistica e idealizzante.

5. «L’arte della guerra». Le opere storiche e letterarie

Intorno ai suoi due capolavori gravitano altre opere che svolgono alcuni corollari e temi particolari delle due opere maggiori.

Cosí i sette libri Dell’arte della guerra (scritti probabilmente fra il 1519 e il ’20) trattano, con minuto e saldo ragionamento e – attraverso il dialogo di vari personaggi immaginati a discuterne nel famoso cenacolo fiorentino degli Orti Oricellari – il tema della milizia cittadina e nazionale opposta polemicamente alle milizie mercenarie, arricchendolo con particolari discussioni su questioni di tattica militare, di fortificazioni, di logistica, di armamento e sull’efficacia delle varie «armi» attribuendo una funzione fondamentale alla fanteria, un valore sussidiario alla cavalleria e un’importanza molto secondaria alle armi da fuoco e all’artiglieria. Cosí la Vita di Castruccio Castracani (del 1520), famoso condottiero e politico medievale, riprospetta in un ritratto, sin troppo esemplare e ideale, la figura del «principe» presentato con tanta diversa ricchezza di prospettive e di implicazioni nel grande trattato del 1513.

E le stesse Istorie fiorentine (composte in otto libri fra il ’20 e il ’25 e rivolte a narrare – dopo un sommario preambolo sulla storia italiana fin verso il 1440 – la storia di Firenze dalla cacciata del duca di Atene alla morte di Lorenzo il Magnifico) non mancano di chiari raccordi con il pensiero del Principe e dei Discorsi e si presentano come un esempio di storiografia che, pur cercando esattezza e base sicura di informazione, è animata soprattutto da un continuo interesse politico, da una tensione di riflessione e valutazione disposta a indicare vie pratiche di azione politica, e si concentra nella vigorosa rappresentazione di grandi personalità «virtuose» in lotta con la cieca «fortuna», ripresentando ancora i temi machiavelliani della infedeltà e viltà delle milizie mercenarie, la differenza fra principe «virtuoso» (nel senso piú volte da noi spiegato) e cieco ed egoistico tiranno, l’opera perniciosa della chiesa volta ad impedire l’unificazione o almeno l’organizzazione dei vari stati italiani in una generale politica di indipendenza nazionale.

Certo la tensione suprema dei due capolavori è diminuita e lo stile specie nelle Istorie fiorentine si è fatto sí piú pacato, disteso, elaborato e classicheggiante, ma con ciò anche meno asciutto ed energico, cosí come l’animo del Machiavelli – malgrado impennate e sdegni – sembra risentire di un’accentuata amarezza e di una minore fiducia nelle sorti italiane sempre piú decadute sotto l’incalzare di avverse condizioni e del crescente e sempre meno contrastato predominio straniero.

A completare la presentazione di questa grande personalità sarà infine necessario considerare un’altra cospicua parte della sua attività di scrittore: quella che – con varia densità e impegno, ma con alcune punte altissime e con un generale raccordo con le idee centrali della visione machiavelliana della vita e della realtà – piú direttamente si presenta in forme artistiche e si ricollega insieme ad elementi dell’animo complesso dello scrittore e alla sua partecipazione viva e sincera alla vita letteraria fiorentina.

Su di un piano minore andranno collocati i sonetti e le numerose rime varie: canti carnascialeschi, piú direttamente collegati con elementi di gaiezza e di humour dello scrittore e con aspetti tipici della vita letteraria fiorentina. Ma a piú alto livello di densità e di significato ci portano già i Capitoli in terza rima che svolgono temi etico-politici (la fortuna, l’ambizione ecc.), i due ricordati Decennali, il poemetto allegorico l’Asino d’oro, pieno di amaro pessimismo, e soprattutto l’estrosa e libera novella di Belfagor, che nella disposizione di un narrare fresco e inventivo – già presente, come dicemmo, in alcune lettere – introduce un motivo profondo di satira non tanto contro la malvagità delle donne (il tema piú appariscente della novella è appunto la sorte sventurata dell’arcidiavolo Belfagor mandato in terra a verificare la disgrazia dell’aver moglie e sin troppo persuaso di tale verità dalla sua tristissima esperienza) quanto contro la generale malvagità della vita e la decadenza di un mondo privo di valori e divenuto un vero e proprio inferno.

E se da un interesse piú linguistico e disimpegnato, nonché dalla costumanza teatrale classicheggiante del tempo, sembra trarre avvio l’attività comica del Machiavelli, in realtà proprio in questa direzione si prospetta una linea artistica che culminerà nella grande arte della Mandragola, capolavoro senz’altro del teatro cinquecentesco.

Ché se l’Andria può esser considerata non piú che una divertita traduzione dell’omonima commedia di Terenzio, già la Clizia supera di molto il semplice rifacimento della Casina di Plauto e dimostra qualità teatrali e doti poetiche ben originali. Qualità e doti che raggiungono la genialità appunto nella grande Mandragola.

Questa grande commedia in prosa, scritta probabilmente intorno al 1520, svolge una trama non priva di rapporti con gli intrighi delle commedie classiche e, piú, con i temi di beffa crudele della novellistica dal Boccaccio in poi. Un giovane e ricco studente, Callimaco, tornato da Parigi a Firenze, si innamora di una giovane signora, Lucrezia, moglie dello stolto e credulo messer Nicia, e – aiutato dallo scaltro parassita, Ligurio, dalla stessa madre della giovane, Sostrata, dal suo confessore, fra Timoteo, spregiudicato e avido di guadagno, che ordiscono un inganno complicato e crudele ai danni del povero Nicia desideroso di aver un figlio – riesce ad ottenere il possesso della virtuosa Lucrezia.

Ma la trama, che cosí riassunta può apparire leggera e comica o viceversa – se precisata nel meccanismo dell’inganno – lasciva e immorale (donde la persecuzione della censura che fino in tempi recentissimi si è esercitata con stupido accanimento su questo capolavoro), si realizza, nella sua attuazione concreta, in un incontro superbo e altissimo di realismo spregiudicato, di osservazione lucidissima della realtà privata (come altrove il Machiavelli aveva fatto per la realtà politica) mossa da leggi implacabili di utilità e contraddistinta dalla presenza quasi assoluta di individui astuti e malvagi, o sciocchi e meschini, e di un fondo amarissimo, seppur contenuto e controllato, che si alimenta appunto della contemplazione spietata di un mondo cosí basso e non modificabile.

Né questo fondo di amarezza rimarrà tutto chiuso nella rappresentazione obbiettiva e impassibile di quella realtà, ché nel finale della commedia esso troverà pure una sua espressione piú decisa nella decisione di Lucrezia, che, costretta, contro la sua volontà morale, ad accettare un’azione disonesta, troverà come un suo riscatto sdegnato accettando come amante da allora in poi – per propria volontà – quel Callimaco che gli era stato imposto dalla scellerataggine della madre e del confessore e dalla stoltezza del marito.

Lungi da un divertimento, seppur geniale, la Mandragola si configura dunque come un’opera profondamente pessimistica e virilmente dolente senza con ciò lacerare la forza della rappresentazione realistica, la genialità e l’energia comica dell’azione, la robusta e secca coerenza di quel linguaggio che il Machiavelli alimentava con le risorse realistiche del fiorentino parlato, quale egli aveva teorizzato nel Dialogo intorno alla lingua e quale egli aveva usato con altre componenti di tecnica e scientifica lucidità e passione nelle sue opere politiche.

Tanto diverso anche in questo dalle tendenze classicistiche e puristiche del bembismo e del gusto retorico ed edonistico delle correnti idealizzanti del Rinascimento.